Io non volevo figli
Ho voluto figlie, e ho iniziato a interrogarmi sulla condizione della donna.
Non ho mai pensato che avrei avuto dei figli. Ero certa che avrei vissuto fino ai trent’anni in casa dei miei genitori, in modo da potermi dedicare a tutto quello che mi piaceva, al lavoro, ai viaggi. Mia madre mi diceva sempre: non fare figli. Mia madre mi diceva sempre tutto quello che c’era da sapere, ma io non le davo importanza. Non si dà mai importanza alle parole delle proprie madri finché un giorno, un giorno qualsiasi, mentre si è prese da altro, ci si ferma all’improvviso e si pensa: ma lei me l’aveva detto.
Non avevo mai capito perché mia madre mi dicesse di non fare figli, o almeno di aspettare il più possibile. Lei aveva smesso di lavorare incinta di mio fratello, a 23 anni, occupandosi prima di lui e poi di me, della casa, di suo marito, soprattutto di suo marito, con un senso del dovere che io non ho mai avuto.
Eppure mi sono sposata a venticinque anni, ero in coppia da un anno soltanto. Mia madre - ovviamente - non voleva che mi sposassi. Nemmeno mio padre, devo dire, ma nel suo caso credevo fosse una sorta di gelosia, di tenero possesso paterno che, ai tempi, mi pareva del tutto normale. Solo oggi, a diciassette anni di distanza, so che non avevo capito né lui né mia madre. Quanto a lei, pensavo che non volesse che mi sposassi perché odiava gli uomini.
Ricordo il momento in cui ho pensato per la prima volta che sarei diventata madre. Due mesi prima di sposarmi, era il mese di luglio del duemilasette. Ero appena uscita dall’ospedale di Prato, un oncologo mi aveva spiegato con una curva gaussiana quanto tempo restava da vivere a mio padre. Nelle sue condizioni - mi aveva detto - la maggior parte delle persone sopravvive tra i tre mesi e due anni. Poche muoiono prima, poche vanno oltre. Così io ricordo anche il punto preciso di Prato in cui mi trovavo, quello in cui ho detto al mio futuro marito: facciamo un figlio.
Era la prima volta che formulavo questo pensiero e di certo non lo facevo per me. Quasi dieci anni dopo, e dopo altrettanti di malattia, la mia migliore amica stava perdendo sua madre. E mi ha detto: forse dovrei fare un bambino, perché possa vederlo prima di morire. Quel bambino non l’ha fatto, sua madre è morta, e quasi cinque anni dopo è arrivata una bambina.
Questo pensiero parallelo che entrambe abbiamo avuto non è altro che il frutto di un seme piantato tanti anni fa, quando siamo nate. Quando siamo nate in noi cresceva già il germe della maternità. Forse le nostre madri potevano non spingerci ad avere figli - personalmente, mia madre non lo faceva, non ho mai avuto bambolotti, non ho mai dovuto prendermi cura di bambini, sono stata spinta a studiare e diventare autonoma - ma tutt’intorno a noi era chiaro quale fosse il nostro destino: far figli, avere un marito da accudire, pulire una casa e cucinare col Bimby.
Ma io non me ne ero mai accorta, e di certo non avrei ascoltato mia madre. Dopo quel primo pensiero fugace, fare un figlio per farlo conoscere a mio padre, ormai si era instillata in me l’idea, il seme germogliava, si aggrappava alle mie trippe, saliva su per tutto il mio corpo fresco di ragazza. Pur giovanissima, ero sposata. Intorno a me iniziavano a ripetersi le frasi: a quando un bambino? Fai un nipotino alla tua mamma (perché ovviamente, da vedova, a sessant’anni, l’unica cosa che avrebbe potuto riportarla alla vita era un neonato. Invece mia mamma aveva ripreso a ballare). Mio marito, sette anni più di me, iniziava a parlarmene sempre più spesso.
Dentro di me sentivo che c’era qualcosa di sbagliato, che era contro me stessa. Io non avevo mai desiderato diventare madre, mai. Ma non avevo gli strumenti per capire cosa fosse, quel tarlo che provava ad attaccare la pianticella dentro di me, che intanto veniva concimata dall’esterno. La società non me li aveva dati e mia madre, che ha avuto un’infanzia poverissima e non ha studiato, non era mai stata capace di dirmi davvero perché non dovevo fare figli.
C’è un altro momento che ho fotografato nitidamente: io, lei e mio marito che passeggiamo nel parco della villa di Monza. Mio padre era morto da alcuni mesi. Io le dico: ho smesso di prendere la pillola. Lei, che nonostante stessimo camminando si accascia tutta, con le spalle, con le guance: no, ma perché, mi dice. Avevo appena compiuto ventisei anni.
Oggi quel suo ingobbirsi lo capisco, allora avrei fatto tutto il contrario di quel che mi diceva. Io non ero lei. Io non sarei mai stata lei. Tutto ciò che lei era, io dovevo fuggirlo, dimostrare che si può essere diverse. Io ho studiato, ho viaggiato, sono la prima laureata in famiglia, io sono artefice del mio destino.
Questo punto è sviscerato in ogni aspetto nella tetralogia di Elena Ferrante, L’amica geniale. Ferrante fa della maternità un tema centrale di tutto il libro, pur lasciandola in qualche modo sullo sfondo. Diventa protagonista, sì, ma è sempre a supporto di tutt’altre narrazioni: l’amicizia tra Lila e Lenù (che si allontanano, entrambe con paura, dalle loro madri), il dissidio interno di Lenù, la fatica proletaria di Lila. Lenù è terrorizzata all’idea di poter diventare come sua madre: chi non lo è? Solo che nessuno ce lo aveva mai detto, nessuno ci aveva detto che la maternità è mostruosa. O almeno, non così bene da arrivare a tutte.
Ho avuto due figlie. Le ho avute con un’incoscienza che oggi non ho più. Oggi non diventerei madre. E non perché sono diventata come la mia - spoiler: sì, certo, sono diventata come mia madre - ma perché mi è riuscito ancora peggio.
Perché non ho saputo non perdermi, perché la maternità ha generato un’altra me che io non avevo previsto. Nessuno ti dice che c’è quel rischio, quando diventi madre: scomporti completamente e poi rinascere in qualcosa che non eri e che non conosci. Qualcosa di nuovo che devi imparare ad amare e a perdonare, perché spesso è diverso da ciò che avevi immaginato di te, da come sei stata e hai respirato e ti sei mossa tutta fino a quel momento.
Dico che mi è riuscito peggio non perché ritengo che a mia madre sia riuscito male: da figlia non ho (quasi) niente da rimproverarle, ha fatto molto più di quello che era nella sue possibilità, considerato da dove viene. Io parlo di come lei ha vissuto la maternità, di come è stata capace di galleggiare in un ruolo complesso e ingabbiante in un’epoca in cui non aveva nessun diritto, nessuna via di fuga. Ritengo che le nostre esperienze siano sì diverse, eppure assimilabili: nessuna delle due ha veramente scelto di diventare madre. Lei perché è rimasta incinta per sbaglio e ha dovuto, io perché in realtà non l’ho mai veramente desiderato, ma mi sembrava qualcosa di normale, un mio compito. Sulla scelta che hanno le donne torneremo.
Lei in qualche modo era come consapevole di quel che doveva essere. Sapeva che restare incinta le avrebbe sconvolto la vita. Io no, io ero convinta che sarei stata sempre me stessa. Mi ostinavo a portare i tacchi alti al nono mese, e coi tacchi ho fatto la mia prima passeggiata con la carrozzina, qualche giorno dopo le dimissioni. Credo che in quei tacchi ci fosse tutta la mia illusione: restare in piedi, in equilibrio, camminare dritta nonostante tutto il peso che mi portavo e mi sarei portata dietro, da quel momento in poi.
Oggi ho il mal di schiena cronico e porto sempre scarpe basse. Le mie figlie sono ciò che più amo al mondo.
Sono partita da me per dire che il problema non è avere figli e figlie. Il problema è diventare madri nella nostra società. E questo l’ho capito solo osservando le mie bambine, oggi ragazze, crescere. L’ho capito parlando con le altre madri, con la mia. Scoprendo la storia delle donne della mia vita. Leggendo autrici, guardando film scritti da donne, parlando con altre madri e non madri. Scoprendomi femminista, tirando fuori tutta la rabbia che per anni ho covato, da quando io ero bambina e mi veniva detto: questa cosa non fa per te. Sorridi. Non fare il maschiaccio. Stai composta. Ce l’hai il fidanzatino? Come sei bella. Perché non ti pettini? Stai diritta. Sei tu che l’hai provocato. Troia. Non giocare con le Barbie.
Io voglio tutto. E scommetto che anche voi volete tutto. Prendiamocelo.
Quando si scrive di maternità e dei suoi disagi, si entra in un groviglio che sembra impossibile da sciogliere e da raccontare, tanto è intricato anche nella nostra testa e nel nostro cuore. Sono felice ogni volta che trovo un’altra donna che non ha paura di dire la verità su questo tema quasi tabù, anche quando è scomoda. Grazie per questo primo pezzo. 🤍
Parole chiare che esprimono il groviglio di luce e buio che ho nel cuore da quando sono diventata madre 13 anni fa. Grazie