Non avevo mai pensato che sarei diventata madre, l’ho già raccontato. Bambina, avevo una passione smodata per le Barbie, che per me erano veicolo verso l’adultezza e la libertà. Non c’erano bambine e bambini, non c’era niente che somigliasse alla cura. C’erano belle case (più inventate che possedute), c’erano camper e auto da guidare verso nuove avventure, c’erano triangoli amorosi dove lui (Ken) finiva sempre sconfitto perché vincevano le Barbie amiche, che se non lo erano, lo diventavano. Da bambina ero certa che un’amicizia valesse più delle attenzioni di un uomo, la società ce lo fa dimenticare.
Possedevo la Famiglia Cuore, ma ce l’avevo come si possiede qualcosa che bisogna avere. Dei due bambini non mi importava niente, restavano sempre in disparte. Non ero accudente nemmeno da piccola, ed è per questo che ho sempre saputo che l’istinto materno non esiste.
Non me ne sono mai nemmeno preoccupata, in effetti. Non ho avuto fratelli o sorelle minori, non ho dovuto badare a cugine o cugini perché sono la più piccola in famiglia. Soltanto una volta, a quindici anni, ho fatto da babysitter a una vicina di casa. Aveva tre anni e voleva vedere la Sirenetta in loop: avevo trovato l’esperienza noiosissima, nonostante le cinquantamila lire guadagnate, e così non l’avevo fatto mai più.
Eppure intorno a me sembrava che bambine e bambini, più o meno di tutte le età, rappresentassero l’aspirazione principale di chiunque. Non c’era donna, nella mia vita, che non avesse a che fare con loro. Mia madre, ovviamente. Le altre madri. La maestra Maria, che badava a noi e poi ad altri dopo di noi. Nonostante la mia esistenza fosse popolata di persone vecchie, bambine e bambini erano ovunque. Come si imparava a sopportarli, come si provava interesse per loro? Mai, per una volta, avevo pensato io stessa di farne parte: è quello che vedo fare a chiunque si senta in dovere di esprimere il suo disgusto per i più piccoli.
Immaginarsi già adulti, immaginarsi arrivati al mondo già grandi, senza un passato, senza i pianti, le noie, i salti, le ginocchia sbucciate e tutto il resto.
Anch’io ero così. Ma andavo anche oltre: non esistevano. Essi - i bambini - c’erano, ma per me non erano.
E per questo la questione dell’istinto materno non si è mai insinuata nella mia testa. Non ci avevo pensato, non ho riflettuto, quando ho deciso (ancora, deciso?) che sarei diventata madre. E nei nove mesi in cui mia figlia ha vissuto dentro di me, mi crogiolavo distraendomi con altro: coprivo la ripugnanza di un corpo coi suoi liquidi crescente dentro di me con la tenerezza del cuore che batteva fortissimo, ogni volta che vedevamo quella che avrei scoperto essere Penelope. Se mi soffermavo a pensare che i miei organi si stavano spostando e comprimendo per farle spazio, provavo a concentrarmi sulla piccolezza di quel piede che, con la mano, potevo riconoscere attraverso centimetri di pelle e grasso e tessuti mentre spingeva verso l’esterno.
Quando mi veniva in mente che avrei dovuto partorire, e poi allattare, e poi insegnare il sonno e tutte quelle cose che sono bravi tutti a ripeterti per distrarti dalla vera essenza della maternità, mi rifugiavo nei libri.
Leggevo libri per sopperire all’assenza di desiderio dell’unica spinta interna che avrei dovuto provare e che mi sarebbe stata utile: l’istinto materno. Non ne provavo, non sapevo cosa fosse, e se per caso tentavo con timidezza di farlo presente a qualche altra donna, cercando una risposta ai miei dubbi, mi sentivo ripetere: tranquilla, appena la vedrai saprai cosa fare.
Ma non è stato affatto così.
Quando l’ostetrica mi ha posato sul petto Penelope io ero distrutta. Ero contenta, sì, di vederla. Ricordo il piccolo ciuffo di capelli biondi al centro della testa, il viso schiacciato, gli occhi a mandorla. Le piccolissime mani raggrinzite. Era molto diversa da come l’avevo immaginata, e quello è stato solo il primo momento in cui è accaduto, in cui mia figlia mi ha spiegato che i figli non sono al mondo per soddisfare le nostre aspettative. Lei era lì, uscita dalle mie viscere, ma io non sentivo niente.
Riesco ancora a provare quella sensazione: dov’era la felicità che mi aspettavo di sentire? Dov’erano le lacrime che sarebbero dovute sgorgare a litri? E soprattutto: dov’era l’istinto che sarebbe dovuto nascere insieme con mia figlia? Io continuavo a non sapere niente. Lasciandomi sola con lei, si aspettavano che l’attaccassi al seno. Ero sfinita dopo ventitré ore di travaglio, la manovra di Kristeller, il secondamento con le mani nel mio canale vaginale per riuscire a staccare la placenta. Ero rimasta ferma a respirare, intontita dalle epidurali, con lei sdraiata sul petto, silenziosa e immobile. Mi ero aspettata che lei, come i cuccioli di animale, sapesse cosa fare. Che raggiungesse il capezzolo che le avevo appena avvicinato. Le infermiere, trovandomi in quel modo, mi avevano rimproverata: perché non l’avevo attaccata subito? Così avevano preso un mio capezzolo, l’avevano strizzato e glielo avevano messo in bocca. Dov’era il mio istinto materno?
Mentre lo cercavo, speravo solo che si prendessero mia figlia per qualche ora, che la tenessero al nido, che mi lasciassero in pace. Volevo solo dormire. Datele un biberon, fate quello che vi pare, io devo dormire.
Per nove mesi, mi sono chiesta se mai avrei provato amore per mia figlia. Pensavo che si trattasse dei primi tempi più duri. Mi dicevo: passerà. Inizierà a dormire. Inizierà a mangiare. Passerà. Ma le settimane passavano e io non sentivo il cuore esplodere, e compivo gesti che erano scritti sui libri, che di certo non partorivo io, che non arrivavano da nessuna parte di me.
Perché la verità è che l’istinto è qualcosa che sviluppi quando puoi fare delle previsioni, quando hai le coordinate, quando ripercorri strade. Io non avevo mai tenuto una neonata in braccio, non capivo perché piangeva, non capivo se mangiava abbastanza. In poche parole: ero io ad avere bisogno di una guida, di qualcuno che già avesse istinto.
Poi un giorno, dopo nove mesi, ho guardato mia figlia con occhi diversi. Ho sentito il cuore pieno d’amore, ed è quello che mi succede anche oggi, quando penso a lei. In quei nove mesi, ho imparato da sola a fare la madre. Ho imparato cos’è una bambina, come ci si comporta con una bambina. Anzi, con mia figlia. Perché ogni volta si nasce di nuovo insieme, ogni volta si azzera tutto, ma qualcosa di quell’istinto rimane, in qualche modo sai muoverti. Ho quindi imparato cosa fare se piangeva, come interpretare le sue espressioni e i suoi movimenti.
Non sempre ho indovinato, ed essere madre anche oggi, dopo quindici anni, significa ricalcolare continuamente quell’istinto che le giornate, e le settimane, e i mesi e gli anni hanno saputo costruire. Lo stesso che, in misura probabilmente diversa, con forme diverse, ha anche il padre di mia figlia.
Leggendo Inferiori di Angela Saini ho scoperto anche il lavoro di Sarah Hrdy. Nel suo libro Istinto materno, l’antropologa e primatologa affronta il tema della maternità da un punto di vista multidisciplinare: biologia, antropologia, psicologia, storia. La domanda che si fa è: l’istinto materno esiste? La conclusione che sembra derivare dalla sua ricerca è: l’istinto materno - per quanto riguarda la specie umana - è un costrutto culturale. Siamo tutte condizionate, anche chi di noi arriva al primo parto pensando di aver sviluppato questo istinto. Non ho ancora letto il libro di Hrdy, ma mi ha incuriosito perché sfogliandolo ci ho ritrovato la contrapposizione che tanto mi intriga da quando sono madre: quella tra l’istinto materno - quello delle buone madri - e il contro-natura, quello delle madri snaturate. In realtà, come spiega Hrdy, la natura prevede tantissimi modi di essere madre, modi molto più liberi di quelli che ingabbiano noi umane.
Sempre sul tema delle brave madri e dell’essere invece contro-natura (non sentire l’istinto materno, non voler diventare madri…) c’è Pentirsi di essere madri di Orna Donath, un libro che raccoglie testimonianze di donne che ammettono di essere diventate madri solo per questioni sociali, per rispondere ad aspettative e per non essere considerate sbagliate, fallate, contro-natura, appunto. A questo proposito, l’autrice scrive:
La maternità non è una faccenda privata. La maternità è sempre, eternamente, sotto ogni possibile aspetto, pubblica. Da un lato le donne si sentono dire ogni giorno che certe risorse loro le possiedono per istinto, per natura, mentre dall’altro la società le riempie di indicazioni su come dovrebbero comportarsi nel rapporto con i figli per poter essere considerate “brave donne” e “brave madri”, come persone e come esseri morali.
Qualche sera fa, a un incontro con altre donne, una di loro ha detto: nessuno ti dice che è normale non avere nessun istinto, quando diventi madre. Io penso che alcune donne abbiano iniziato a parlarne, ma che la società non sia pronta per scardinare completamente il mito della donna che nasce per procreare. Anzi, più consapevolezza abbiamo - di non volere figli, di volerli coi nostri tempi e modi - più la politica (che governa stati patriarcali) tenta di relegarci al ruolo materno. Resta un tabù che possiamo sconfiggere solo continuando a parlare tra di noi, sempre.
Sono madre da quindici anni e non pensavo che lo sarei mai diventata. Nessuno mi aveva preparato a ciò che sarebbe stato. Né come donna (socialmente, professionalmente) né come essere umano che ha la responsabilità di altri esseri umani. Questo, secondo me, è il secondo grande inganno della maternità: sapere che non è una fase, non sono i bambini piccoli, non sono le rinunce. È piuttosto LA rinuncia, la tua rinuncia a qualsiasi tipo di spensieratezza.
Nei giorni scorsi ho parlato con una madre la cui figlia è stata vittima di femminicidio: mi ha chiesto di non avere paura, di non sentire quel peso costante che è normale sentire, di vivere il bello della maternità e mettere da parte tutto il resto.
Ancora Donath dice:
Dunque, anche se i figli non suscitano nelle proprie madri un unico genere di emozione, anche se i sentimenti di una mamma possono variare nel corso della giornata, e di sicuro nel corso del tempo, a seconda di come si comportano i suoi figli, del tempo, dello spazio e del supporto su cui può contare, ciò che ci si aspetta da ogni madre che voglia essere considerata una “buona madre” è che il suo stato d’animo rimanga sempre lo stesso. Una “brava madre” deve amare tutti i suoi figli in maniera assoluta e incondizionata (a meno che non abbiano “deviato dalla morale”); deve riprodurre la grazia di una Madonna, se non immediatamente dopo il parto, certamente col passare degli anni; e se il cammino di una mamma non è tutto rose e fiori, la sua sfida sarà di accettare di buon grado la sofferenza che la sua condizione porta con sé, poiché si tratta di un tormento necessario e inevitabile che la accompagnerà per tutta la vita.
Io, personalmente, quel tormento lo sento ogni giorno. Forse riempie lo spazio che non ha occupato l’istinto, ed è lo scotto da pagare per non aver desiderato fin da bambina di essere ciò che ci si aspettava da me.
Grazie mille per mettere nero su bianco i pensieri nascosti di ogni madre. Io sono stata fortunata perché la mia migliore amica diventata madre prima di me mi ha sempre detto la nuda e cruda verità (il parto non è niente in confronto all’allattamento, non ti aspettare di amare tuo figlio subito, non sentire i consigli di nessuno, nemmeno di tua madre, sbaglia ma sbaglia con la tua testa, ecc) e in un minimo sono arrivata “preparata” e soprattutto “consapevole” che non è tutto rosa e fiori e che probabilmente non lo sarà mai. Ad oggi con l arrivo della seconda figlia mi rendo conto poi che veramente io ho bisogno di tempo per carburare, per imparare ad amare perché (so che è brutto da dire ma so anche che qui si può parlare senza essere giudicate) mi rendo conto di non amarla ancora come il primo. Ma so per certo che è questione di tempo e che ho solo bisogno di conoscerla e di conoscermi di nuovo meglio ora che sono mamma bis. Perché poi si apre un altro capitolo riguardante la genitorialità bis, che tutti pensano sia un copia e incolla della prima ma anche qui non é assolutamente vero ma ti resetti di nuovo e cambi ancora e ancora…
Che bellissimo pezzo! Leggendoti mi è venuto in mente che l’unica volta che ho tenuto in braccio un bambino (per la foto) non ero che una bambina anche io, un’altra bambina senza bambole né istinto. Ma con gatti, e la ferma ambizione di diventare un giorno come Madame degli Artistogatti. Altro che principi.